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L’INELUTTABILITÀ DEL FUNGO (flash fiction da 5 min.) [Drammatico]


Formichine fameliche dalle antenne vibranti divorano la polpa del mio bicipite. Le osservo distaccato, ebete: pare quel cassettino di fondi di caffè che stava sotto l’espresso, ma che ora ribolle come un fango scuro. Ne ho l’immagine perché mia nonna aveva un bar di paese, quelli ormai scomparsi, quelli coi vecchi avvinazzati che giocavano a carte sui tavolini di formica verde sbiadita dal sudore, bruciacchiata sui bordi dai mozziconi dimenticati accesi. Ma eccole di nuovo, fameliche! La digressione onirica nel puzzolente bar di provincia non m’è servita. Strillo come un bambino, senza emettere alcun suono. In balia del panico urlo e balbetto, scalcio, sbatto il braccio ormai scarnificato, finché finalmente, grazie a Dio, vengo svegliato dai mie stessi lamenti di dolore.
Veronica dorme al mio fianco, scaricando tutto il peso della schiena sul mio povero braccio completamente informicolato. Ancora ansimante e sudaticcio dalla brutta esperienza, la smuovo con delicatezza quel poco che mi è possibile; dormire sotto le stelle nello stesso sacco a pelo è stata un’idea stravagante, ma diamine quanto è scomodo.
Abbasso la cerniera fino a metà sacco. Mi metto rapidamente seduto grazie agli addominali allenati. Mi massaggio il braccio indolenzito.
Inspiro profondamente l’aria di primo mattino mentre mi guardo attorno. È umida e frizzante, solletica le narici infastidendole, ma sa di prato selvatico, di fresco, di... di inviolato dall’uomo.
Sotto di noi, ben duemila metri sotto di noi, si intravedono ancora le luci della città di Verona, poi, via via, di altri centri importanti della Pianura Padana, arrivando con lo sguardo sfuocato fino a quello che potrebbe essere il mare. Chissà se in quel grigiore lontano si cela la Porta d’Oriente: Venezia, mai così lontana.
Stacco uno stelo d’erba, robusto, è di Plantago, e lo infilo in bocca. Osservo il cielo mentre colgo il riflesso di un aereo illuminato dal sole, ma così lontano da essere appena visibile. Chi mai volerà così in alto?
Poi l’occhio cade su uno strano fungo vicino al Plantago. È basso, largo e ciccione come nelle favole, di un colore tra il grigio e il blu, chissà se è uno di quelli allucinogeni di cui tanto si parlava nel secolo scorso.
Veronica nel frattempo si sta svegliando. Ha aperto gli occhi. Li strofina con le nocche. Le palpebre sono semichiuse, ma da essi già trapela tutta l’irrefrenabile voglia di capire, di scoprire, di godersi la vita. A breve andrà a studiare in un’altra città; c’è un po’ di maretta, sente che questa cosa potrebbe allontanarci. Ha ragione, forse ci perderemo... io la perderò! I suoi diciott’anni sono un’età terribile, di instabilità, conflittualità e angosce, ma anche di forza mista a entusiasmo e tanti progetti. C’ero passato anch’io. Si vive tutto questo amplificato, stando sopra le montagne russe... come la nostra relazione.
La bacio sulle labbra per alcuni secondi. Poi la osservo sereno. La nuvola che offuscava i miei pensieri s’è dissolta: Veronica è così bella da lasciarti accontentare anche del solo presente. D’improvviso mi sento fortunato, un prescelto, tanto da essere colto da un senso di euforia incontrollata, quella che ti porta a fare e dire cose ridicole. Le sibilo, ammiccandole: “Vuoi che ce lo fumiamo?”
Lei aggrotta il sopracciglio, perplessa. La faccio chinare in avanti verso il fungo blu. Subito sgrana gli occhioni color nocciola: “Uau!”
So che non è per il fungo, ma per lo sfondo che ci sta dietro: lo stesso spettacolo a cui ho assistito poc’anzi, con le città al risveglio.
“Si vede persino il mare!” Erompe sorpresa ed entusiasta. Ci baciamo di nuovo con gli occhi chiusi, a pancia in giù, stesi davanti al fungo. Poi d’improvviso quel lampo che ci confonde quasi a tramortirci. Noncurante Veronica osserva il fungo, incantata, mentre con la punta del naso quasi ne sfiora il mantello. Si avvicina con l’indice, toccandolo. D’un tratto si ritrae, la sua espressione diviene cupa, cambia in paura, cambia in terrore. Cambia in un sentimento atavico quanto doloroso che non ho mai letto sul volto di nessuno.
Mi affianco guancia contro guancia, più premuroso che spaventato. Osservo nella sua stessa direzione. Dietro al fungo blu sta nascendo un enorme fungo grigio, grande quanto la città di Verona. Un’onda circolare si espande dal suo centro, mentre tutto quanto ai suoi piedi prima s’infiamma come la capocchia di un fiammifero per poi sciogliersi. No! Non stiamo sognando, non è un film, non siamo in un racconto. Senza dir nulla ci abbracciamo fortissimo, piangendo terrorizzati ma consapevoli: questione di alcuni secondi. L’orrore per l’ineluttabile, lo stesso che le ho visto in volto, ci sarà letale ancor prima che il vento ci bruci.

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(Immagine da Pixabay, Fractals99)

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