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Osservo le tre chiavi che Elizabeth mi ha lasciato. Una apre il portoncino, un’altra il sottotetto nel palazzo dove abitava il figlio.
Una terza chiave robusta e pesante, forse antica, sicuramente appartiene a un vecchio baule.
Ricordo vagamente quel locale, quasi sempre ci sbronzavamo, una volta rischiai persino di cadere dall’altana.
Lascio che i ricordi emergano mentre osservo i flutti lasciati dal vaporetto appena partito sbattere sui marmi degli scalini.
“Alvise! Guarda là in fondo!”
“Dove?”
“Là! Là... Lo vedi quel cornicione?”
“Quale? Dove?”
“Che palloso che sei!”
“Lo sai che l’alcool mi annebbia la vista... e i riflessi.”
“Beh, fidati! Quel cornicione non dovrebbe esserci. Quel palazzo non esiste nelle cartine!”
“Ma dove! Dove Robert!”
“Là, in fondo. Secondo me è sulla Giudecca.”
“La vedi la cupola del Redentore?”
“Più o meno... ne vedo due.”
“Non scherzare su queste cose. La vedi o no?”
“Sì... la vedo abbastanza.”
“Bene, scendi allontanandoti verso sud, tra i tetti e i campanili spicca una strana volta, con sopra un timpano...”
Mi fermo di scatto sopra al ponte che unisce Sant’Elena al resto di Venezia. Osservo la laguna.
Inizio a ricordare meglio quel giorno.
Scesi dal tetto, avevamo attraversato la città abbastanza alticci, tutta a piedi, s’era infuriato perché avevo fatto due tappe a grappini. Gli era toccato recuperarmi, trascinandomi fuori afferrandomi per il bavero. Finalmente arrivati dove si poteva scorgere il suo fantomatico palazzo, non vedemmo niente di straordinario.
“Non c’è più!”
“Robert, ti sarai sbagliato dai!” Gli dissi con la voce impastata.
Lui scuoteva la testa, osservava la Giudecca e ripeteva a se stesso. “È là, è là. So che è là!”
***
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