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LA GUERRA ABISSALE DI VENEZIA è un racconto forte, una novella distopica e a tratti cruenta. La trama è densa di colpi di scena imprevedibili. Tutto in una Venezia sprofondata negli abissi, ma grazie a questo, unica città sopravvissuta alla terza guerra mondiale.
Guerra, amore, morte... ma anche speranza: una via di fuga dall'abisso. L'opera è ispirata al racconto di Friedrich Dürrenmatt La guerra invernale nel Tibet e vorrebbe esserne un tributo.
Non senza qualche difficoltà, ho adattato la storia durrenmattiana a una mia visione distopica di Venezia dando libero sfogo alla creatività. Ne esce uno scenario unico e originale, folle ma credibile, molto apprezzato dai miei "lettori campione" tra cui accademici.
Come per altri lavori, mi sono imposto uno stile di scrittura semplice e diretto, tuttavia comprendo che non si tratta di una lettura sempre immediata. (Ovviamente sono a disposizione per qualsiasi chiarimento ove possibile).
Dopo il responso negativo della casa editrice con cui avrei piacevolmente collaborato, ho scelto di pubblicare il libro come autore indipendente... lo so, non gioca a mio favore: quando si propone un'opera come questa, l'autorevolezza di un editore molto importante fa la differenza, ma sono certo che il lettore attento a cui entrerà nelle corde non vi porrà particolare attenzione.
Visto che: memo profeta in patria, mi è stata offerta una collaborazione per un'edizione anglosassone, ma per il momento aspetterei gli esiti di un altro racconto tradotto, pubblicato con l'editore Oxford University Press... vediamo che succede.
Puoi leggerne un'anteprima di 40 pagine prima di valutarne l'acquisto. O, se preferisci, puoi leggere direttamente quella fornita da Amazon cliccando sulle copertine.
Al termine della pagina ho inserito una lettura di approfondimento al testo.
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Andrea Perin - Copyright © 2024
Questo romanzo è frutto di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è del tutto casuale.
L'opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d'autore.
È vietata, se non espressamente autorizzata, la riproduzione in ogni modo e forma, comprese le fotocopie, la scansione e la memorizzazione elettronica.
“Abbiamo costruito un mondo da catastrofe. Un addetto di laboratorio distratto può causare l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche…
o a un ingegnere genetico possono sfuggire delle colture di virus…
la nostra strada porta dritto a un mondo di pannes apocalittiche. Per questo la letteratura deve chiedersi se l’umanità non si trovi in una crisi evoluzionistica e stia andando verso la propria fine”.
Da un’intervista a Friedrich Dürrenmatt
La novella che stai per leggere è ispirata al racconto di Friedrich Dürrenmatt La guerra invernale nel Tibet e vorrebbe esserne un tributo.
Ti avviso subito che il linguaggio è a tratti volgare e cameratesco sia per coerenza coi temi trattati sia per fedeltà al racconto originale, mentre in altri la prosa si fa più morbida e sentimentale.
Ho traslato la storia durrenmattiana dal Tibet in laguna, adattandola a una mia visione distopica di Venezia, imponendomi in alcuni passaggi iniziali di seguirne le orme, in altri, dando libero sfogo alla mia creatività. Una Venezia del futuro inabissatasi, ma grazie a questo, unica realtà urbana superstite del pianeta.
È in questa Venezia radioattiva, tossica e letale, quanto surreale, fatta di ruderi, chiese e palazzi isolati dal mare, interconnessi da tubi pneumatici che si svolge l’ultima parte del conflitto della terza guerra mondiale.
Bordelli, ospedali, omicidi, mutanti, tele di grandi maestri veneti, persino l’amore, ma sopratutto l’esistenza del nemico come assioma assoluto, caratterizzano questa avventura negli abissi, che ovviamente oltre a intrattenere, vorrebbe insinuare un’analogia con l’altro grande abisso: quello umano, proponendone, tra le righe, una possibile via di fuga.
Buona immersione. Sia essa in mare, o nell’animo.
***
Sono un sub mercenario, e sono fiero di esserlo.
Combatto la guerra abissale di Venezia. Abissale perché è là sotto, tra i palazzi e le chiese sprofondati nelle piane oceaniche, che ci si gioca la vita.
Combattiamo a profondità fantastiche, ai margini di immense fosse continentali oppure sul bordo di bui e paurosi crateri sottomarini.
Ci muoviamo nell’acqua tra calli e rovine di antichi palazzi, affioranti dall’oscura superficie fangosa piatta. Oppure dentro e fuori tra le grandi cupole sventrate, ora incrostate da uno spesso strato di mutanti fosforescenti a tre valve; gli eredi post nucleari degli antichi bivalvi come cozze e ostriche. Delle volte, passiamo dal buio assoluto all’accecante riverbero del materiale fissile allo stato liquido, riemerso ancora in combustione da qualche crepa profonda.
La lotta è durissima perché amici e nemici indossano tutti la stessa muta di gomma nera.
Una guerra crudele, in cui da ogni anfratto può uscire un pugnale o una fiocina tridente pronta a infilzarci mortalmente.
I nostri nasi sono sempre congelati, le labbra e le orbite oculari paonazze e rigonfie dall’eccessivo uso di maschere e caschi, schiacciati dalla pressione disumana da sopportare.
L’esercito mercenario della Serenissima Amministrazione è composto da gente di tutte le parti. Dentro alle spesse mute di gomma, vi si trovano schiacciati corpi di alti scandinavi biondi dagli occhi bianchi come i ragni delle caverne, nani di pelle scura, oppure vere mantidi nere di due metri dal collo allungato.
Vi combattono ex soldati, assassini violentatori fuggiti grazie a qualche tumulto, membri di organizzazioni clandestine scomparse, avanzi di galera, killer e spietati cecchini dell’Est delle antiche guerre di superficie, torturatori professionisti di qualche scomparsa potenza mondiale. E persino volontari dalla fedina penale pulita.
Vale lo stesso per l’esercito nemico.
Quando non combattiamo in acqua, ci togliamo i caschi per muoverci tra le gallerie e i cunicoli impermeabili costruiti in tempi remoti in questa strana città, sprofondata nel mare chissà quando e perché, ma salvandola dall’annientamento totale di superficie.
Respirando elio e ossigeno passiamo da un palazzo all’altro, da una chiesa all’altra, muovendoci in un groviglio confuso di calli intubate che a volte ci conducono a scontrarci col nemico, massacrandoci.
Non siamo mai al sicuro, nemmeno nel bordello sotto la Rotonda, da cui prende il nome, un antico palazzo che si pensava scomparso secoli fa, ancor prima della terza guerra mondiale, poi riapparso sul fondale melmoso in seguito ai smottamenti tellurici post atomici.
Vi sono prostitute da ogni parte del pianeta e anche il nemico le frequenta, visto che gli ufficiali addetti al bordello si sono accordati. Soluzione resasi necessaria per tenere controllato il problema nato dall’astinenza prolungata.
Il pericolo purtroppo rimane, più di un mio compagno era stato pugnalato mentre era steso sotto una puttana, con la muta abbassata fino alle ginocchia. Qualcuno anche ne rideva: gemere alla morte in atmosfera d’elio può render la cosa cinicamente divertente.
La stessa sorte che toccò al mio Comandante, già mio leader nella terza guerra mondiale, il quale preferiva i bordelli sozzi e corrotti delle truppe, a quelli profumati di lavanda e benzalconio degli ufficiali.
Ricordo benissimo quando lo rincontrai.
***
Venti, trent’anni fa, forse cinquanta, cento, ormai non li conto più da un pezzo, mi presentai a una postazione di superficie della Serenissima Amministrazione, sopra una bagnarola munita di un potente fuoribordo, con in mano un unico documento: la patente di guida europea.
Ero fuggito dalla grande piattaforma di spazzatura, una sorta di isola galleggiante che si diceva estesa quanto la Svizzera. Era costituita da un’infinità di contenitori galleggianti dalle mille forme e colori, più o meno sbiaditi, derivati dal processo di lavorazione dei combustibili fossili perpetrato incoscientemente per secoli.
Le radiazioni e le ondate d’alta temperatura non avevano fatto altro che fondere il tutto in un amalgama plastico puzzolente, imprigionando al suo interno carcasse gigantesche di cetacei, tartarughe, stormi di uccelli e migliaia, forse milioni di corpi umani trascinati dai venti nucleari. Proprio vicino al posto dello scambio, delle enormi costole di balena, scarnate dai primi coloni, delimitavano l’area dove ci si poteva divertire.
Sull’isola era permesso esclusivamente lo scambio di tipo omosessuale. L’eterosessualità, consentita solo ai gerarchi e a pochi prescelti, era punita col bando nel caso di rapporto consensuale. Diversamente, quando si usava violenza, i colpevoli venivano gettati vivi nelle gabbie d’allevamento in mare a ingrassare i pesci. Pesci sfortunatamente sprovvisti di denti, che portavano alla morte anche dopo giorni i condannati ormai consunti fino alle ossa dai continui succhiamenti. Io, evidentemente, fui condannato nel primo frangente.
Qualcuno al comando, un giorno, decise che gli esseri contaminati non avrebbero mai più dovuto generare mostruosità... come biasimare una simile scelta?
Non fu difficile arrivare sul luogo dove si combatteva ancora. Alcuni reduci mercenari presenti sull’isola, sfuggiti al massacro e al successivo cataclisma, spesso parlavano della Serenissima Amministrazione, luogo in cui si poteva ancora combattere. Luogo in cui molti mercenari e soldatesse non erano contaminati. Luogo in cui era permessa, se non addirittura incoraggiata, l’eterosessualità.
L’arma finale che aveva causato lo spostamento delle placche continentali in senso invertito, quasi in un percorso geologico accelerato a ritroso, portò alla formazione di due super-continenti, uno nell’emisfero Nord e uno in quello Sud.
***
Il Mediterraneo si era sostituito all’oceano, come nell’antica Laurasia studiata a scuola. Tuttavia, grazie a quel poco di tecnologia rimasta, non era stato difficile localizzare il luogo altamente radiogeno dove si combatteva la battaglia decisiva.
Passarono i mesi e, quando finalmente arrivai alla postazione militare di superficie, ero parecchio sfinito. Lo strano isolotto segnalato in mappa era formato da una cinquantina di zattere di metallo, unite tra loro da delle pesantissime catene di ferro arrugginito, alcune di queste erano chiuse da una tettoia a mo’ di scatola.
Fui subito messo fuori combattimento del tutto da una donna ufficiale che mi trascinò in una vicina casetta galleggiante che chiamava pontone. La zattera, in passato, aveva avuto pure un nome, desumibile nei caratteri cubitali leggibili tra le bruciature lasciate dall’inferno atomico: S Marcuola Casinò.
Mi fece spogliare nudo. Dopo avermi scandagliato con una specie di contatore Geiger per accertarsi sul mio grado di purezza, mi buttò sopra a un materasso lercio messo di fianco a una panchina di ferro arrugginita.
Dopo poco che mi era sopra ansimante, passarono di corsa dei bambini calpestando la muta di gomma con lo stemma da ufficiale che s’era tolta in un attimo.
***
Lei fu distratta dal chiasso di quei sudici mocciosi, e io ne approfittai subito. Racimolai le poche forze rimastemi e scavalcai la nuda virago per gettarmi completamente graffiato a sangue dietro a una porta sgangherata, che celava una botola con sorpresa. Mi ci infilai. Prima fui risucchiato, poi le orecchie d’improvviso si tapparono per la pressione e iniziai a cadere, cadere, a cadere sempre più veloce. Ero sigillato all’interno di un tubo pneumatico, ricoperto da uno strano liquido organico, sparato come un proiettile verso gli abissi. Non avrei mai più rivisto la luce del sole.
Mi svegliai d’improvviso, tossendo violentemente del liquido biancastro e denso uscitomi dai polmoni. Ancora nudo, mi sollevai sulle ginocchia e iniziai a guardami attorno.
Mi trovavo in un locale quadrato, illuminato da luci al neon. Alle pareti bianche erano appese delle mute di gomma, nere, qua e là delle mensole con sopra degli elmetti molto strani che ricordavano dei caschi da palombaro.
Dietro all’unico mobile presente, una scrivania scolastica verde, stava seduto un sub mercenario.
Indossava una muta nera, come quelle appese. Sotto al suo elmetto stavano impilate diverse riviste pornografiche piuttosto consunte e celebrate.
Armeggiava con un fucile subacqueo sul quale teneva premuta con forza, a livello del manico, una bomboletta di metallo.
Mi alzai in piedi, vomitai lo stesso schifo uscito poco prima dai polmoni. Finalmente si accorse della mia presenza. “Eccolo il novellino.”
Annuii, pulendomi alla meglio le bave con il braccio.
Sorrise, o almeno così sembrò: “Liquido amniotico. È dovunque. Ti ci abituerai molto presto.”
Mentre apriva il cassetto cercai di mettere a fuoco il suo volto. Nemmeno sull’isola galleggiante avevo visto simili mutazioni. La sua faccia, di una bruttezza indescrivibile, assomigliava a una di quelle scodelle antiche recuperate in mare completamente ricoperte di cirripedi e polipi. Mi chiesi come avesse potuto superare i test genetici di ammissione.
Mi fissò, ma io fui più svelto di lui nel girare lo sguardo. D’istinto mi portai le mani sui genitali, ero ancora nudo, ma lui fece una smorfia beffandosi del mio pudore, forse del tutto fuori luogo in un posto come quello.
“Questo è il modello F-ventiquattro che devi firmare.”
Mi avvicinai alla scrivania, sempre con le mani tra le gambe e tremolante per il freddo.
“Devi spuntare la voce se credi o no all’immortalità dell’anima.”
Afferrai la matita, e solo allora mi accorsi che le nocche erano escoriate. Spuntai la casella del No.
“L’altra, riguarda l’esistenza del nemico,” mi lanciò un’occhiata. “Credi all’esistenza del nemico? Vero?”
Annuii, ma, chinandomi ancora sul foglio, mi accorsi che non c’era scelta: l’unica casella presente era quella del Sì.
Il mercenario mollò la presa dal fucile pneumatico; la scelta, forzata o meno, di credere ciecamente all’esistenza del nemico, probabilmente mi aveva salvato la vita.
“La tua matricola è AP1991421. Firma sotto e provati una di quelle mute con la M.”
Firmai senza guardare e mi girai verso la parete con le mute appese.
“Ti serve questo,” mi allungò una boccetta contenente lo stesso liquido uscito dalle mie viscere.
“Mettitela su tutto il corpo. Entrerai nella muta come infilare un guanto. E sicuramente ti disinfetterà le ferite che ti ha lasciato la belva sopra.”
“E uscirne?” Furono le mie prime parole.
“Come un gambero... in muta.” Rise tra sé – almeno così mi sembrò – a una battuta che non fui in grado di capire lì per lì.
La sua risata iniziò a farsi più acuta assomigliando sempre più a quella di un bambino col naso tappato.
Mi appoggiai con la schiena al muro, sbalordito. Capii che stavamo respirando aria satura di elio a chissà quale pressione. Non saremmo mai potuti risalire in superficie, non nell’immediato almeno.
Cercai di allontanare il senso di claustrofobia. Il mercenario si avvicinò al mio viso guardandomi di traverso, forse fiutava la mia debolezza. Sentii il suo odore; lo stesso degli scogli che seccano al sole durante la bassa marea.
Con uno scatto mi mise davanti un fucile da pesca sub, lungo più di un metro.
“Questo è un centodieci oleopneumatico modificato. Lo puoi usare a carica manuale oppure a gas. Caricato ad arpione, ti sfonda uno scafandro a dieci metri. Se usi la fiocina tridente, alla stessa distanza provochi ferite quasi sempre mortali. Tieniti venti metri di sagola per il recupero. Le aste d’acciaio inossidabile sono sempre più difficili da trovare.”
Nel frattempo mi ero già infilato nella muta.
“Tieni! Attento che è già pre-carico a cento bar.”
Mi guardò di nuovo di traverso. Arretrai un pochino per non scontrarmi con un’altra zaffata di alghe marce.
“Lo sai usare almeno?”
Lo afferrai con sicurezza: “Domanda scema!”
La mia fermezza parve coglierlo di sorpresa.
“Okay-okay vecio. Non sono mica tutti troie da combattimento come te.”
“Vecio?”
“Sì, si usa nella Serenissima Amministrazione per dirsi amico.”
Feci spallucce.
“Okay vecio.”
“Dai! Andiamo Diciannovenove.”
“E perché Diciannove... nove?”
“Perché il tuo numero inizia con diciannove... e nove.”
Lo guardai, e mi anticipò. “Finiamo tutti, anche i più alti in grado con quattrocentoventuno... e non provare più a chiedermelo.”
Ci immergemmo nell’acqua ghiacciata muniti di zavorra, attraverso un’apertura nel pavimento. Aggrappati a una fune ci lasciammo cadere nel buio per circa una trentina di metri.
A un certo punto, sotto di noi, tra i grigi della piana abissale, iniziai a intravedere le cupole più grandi e alcuni tetti dei palazzi rimasti illesi. Certe torri terminavano con croci o angeli, ormai irriconoscibili per lo spesso strato di molluschi che li ricoprivano.
Giunti sopra a un tetto, con ancora evidenti i resti di un parapetto a merletti, ci fermammo.
Il sub mercenario mi fece segno di mettere le pinne. Le levai dal gancio dietro alla schiena in prossimità del bombolino e con gran fatica, mettendomi seduto, riuscii a calzarle.
Scendemmo verticali di fianco ai resti di un palazzo sventrato, pinneggiando immersi in quella strana luce: un miscuglio di grigi, verdi e blu in tutte le loro tonalità più cupe, per giungere a un edificio rimasto integro.
Avvicinandoci, mi accorsi che la sua facciata emetteva una strana luminescenza, come fosse stata ricoperta d’oro. Sapevo che probabilmente quel brillore era opera dell’esposizione all’onda radioattiva.
Da tutti e tre i piani partivano dei grossi tubi neri, di circa un metro di diametro, che salivano perdendosi nel buio, correvano orizzontali verso altri palazzi oppure scendevano conficcandosi nella melma e, a tratti, anche nella roccia viva dove affiorante.
Mi stavo avvicinando a quella visione fantastica, ammaliato da tanta bellezza architettonica dal sapore gotico mischiata alla struttura tubulare cubista, quando dietro di noi brillò una forte luce azzurra.
Il lampo fu molto intenso e le facciate di alcuni palazzi fiabeschi apparsi dal nulla rimasero iridescenti per alcuni secondi. Fui incantato da tanta bellezza, anche se le radiazioni ci avrebbero presto ucciso.
Da qualche parte era esploso un ordigno nucleare, probabilmente a fusione. Qualsiasi cosa si fosse trovata sulla sua verticale nel raggio di chilometri, fosse stata anche una portaerei, sarebbe scomparsa.
Visibilmente agitato, il mercenario arruolatore fece segno di sbrigarsi. Pinnegiai più forte che potei. Ci infilammo nel porticato del primo piano, poi sotto a una campana subacquea usata come ingresso.
Usciti dall’acqua mi tolsi velocemente le pinne e l’elmetto con il respiratore, agganciandole alla cintura di zavorra, e lo seguii attraverso una botola.
Poi di corsa col fiatone su per una stretta scala verticale di ferro, in una specie di tubo affogato nel cemento armato. Il bombolino ricolmo della miscela che ci dava la vita, attaccato alla schiena, graffiava contro la parete.
Giunsero le vibrazioni dell’onda d’urto che quasi mi fecero cadere, avrei fatto un volo di diversi metri se non fossi stato scaltro nello stringere il corrimano. Mi chiesi quanto doveva essere stata lontana l’esplosione, visto che l’acqua è incomprimibile.
Usciti dalla scala di ferro e cemento, attraverso una botola, ci trovammo in una sala enorme illuminata da delle luci verdi. Alle pareti ancora appesi immensi quadri, preservatesi Dio sa come, per secoli. Carcasse di computer, alti tre metri, occupavano tutta l’area centrale, alcuni di questi ancora pulsanti, vitali. Mi sentii osservato da quelle strane lucine rosse e gialle presenti sotto alle bobine di nastro che ogni tanto scattavano in rotazione come impazzite.
Ci girammo attorno guardinghi con i fucili pronti a sparare l’arpione, ed entrammo in una saletta completamente rivestita di marmi.
Finalmente il mercenario appoggiò a terra il fucile, le pinne e la sacca impermeabile. Si sganciò la bombola lasciandola cadere. Il pesante fondo si conficcò in una delle mattonelle di marmo bianco del pavimento.
Si girò e mi fece un cenno che compresi al volo: dovevamo riposarci. Lo imitai togliendo tutto, mi appoggiai con la schiena alla parete di marmi colorati lasciandomi scivolare a terra.
Mi voltai a guardarlo mentre mangiava da una scatoletta di latta, immerso in quella strana luce verde; la sua bruttezza ormai non mi faceva alcun effetto, anzi, mi era diventata famigliare.
Dormii per un tempo imprecisato. Mi alzai mentre il compagno, il vecio, sonnecchiava. Fu allora che vidi, forse dopo essermi abituato a quella strana luce, il curioso quadro appeso al centro della parete.
Il suo corpo era statuario, come quello di un soldato, probabilmente un mercenario. Sembrava fatto della stessa consistenza di tutta la pietra della stanza.
Si erano divertiti a fare del tiro a segno, visto che sul petto, sui fianchi e sulle gambe, aveva conficcati gli arpioni dei fucili d’ordinanza.
Mi avvicinai a quello strano guerriero coperto da un unico straccio attorno alla vita, accorgendomi che molte di quelle frecce erano state disegnate tanto bene che parevano vere. Il suo sguardo non tradiva sofferenza, ma sembrava dispiaciuto per un suo motivo particolare mentre fissava verso l’alto.
“Ti piace?”
La voce acuta mi fece sobbalzare. Dovevo ancora abituarmi alle strane frequenze che le nostre corde vocali emettevano in atmosfera di elio e chissà cosa.
Mi girai, scrollai le spalle.
“Ho provato anch’io a toglierne qualcuna. Come ti dicevo le aste d’acciaio, e tra un po’ anche gli arpioni, inizieranno a scarseggiare. Ma non c’è stato verso.”
“Metà sono dipinte,” chiarii.
Si limitò a scuotere la testa: non aveva capito. “Andiamo!”
Uscimmo attraverso una camera stagna posta nello stesso piano. Un tempo fu sicuramente una specie di grande terrazza, probabilmente un promontorio sopra il mare. Il colonnato chiuso ermeticamente da fuori, similmente agli altri edifici non allagati, ricordava più la trama di un tessuto orientale tanto era leggero e complesso.
Scendemmo a picco per diversi metri, poi girammo l’angolo di una chiesa da cui non partiva alcun tubo, probabilmente implosa e allagata. Entrammo nuovamente attraverso una campana subacquea in una specie di torre, forse un antico campanile, molto larga. Anch’essa, per tre quarti della sua altezza, era oscurata da questi strani massicci pannelli. Prendemmo un montacarichi cilindrico, pneumatico, innestato all’interno di un tubo del tutto simile a quelli visti fuori, ma trasparente.
Quando la porta si aprì mi si tapparono le orecchie. Persi i sensi. Crollai a terra.
Due ceffoni ben piazzati mi fecero rinvenire. La muta mi era stata abbassata fino all’ombelico. Il vecio forse mi aveva salvato la vita.
“Andiamo! Mercenario Diciannovenove!”
La voce del compagno d’armi si era fatta ancora più strana, avrei voluto chiedergli a che razza di pressione ci trovavamo, o perché non usavamo solo le condotte per muoverci più agevolmente, ma non lo feci. “Dove sta il nemico?”
“D’ora in avanti, quando saremo in acqua, spara a qualsiasi cosa che vedrai muoversi!”
Caricati i bombolini attraverso dei manicotti che fuoriuscivano da una colonna di acciaio a ridosso del tubo di cristallo, tornammo in acqua nelle tenebre.
I colori ormai non erano più distinguibili e tutto ciò che si vedeva in lontananza, appariva come una chiazza verde-scura.
Procedendo di fianco a una grossa condotta per una dozzina di minuti, ci infilammo tra i vicoli intricati dell’antica città imperiale.
Procedemmo attorniati da una nuvola di meduse luminose, incuriosite dalla nostra presenza. Saremmo stati un facile bersaglio, senonché a un tratto il tappeto urbano sembrò spezzarsi in prossimità di una fossa oceanica. Sotto di noi il vuoto. Scendemmo in verticale finché non fummo quasi completamente al buio.
La pressione schiacciava l’elmo e la cassa toracica, il dolore allo sterno affaticato era ormai insopportabile.
Finalmente entrammo dall’alto in quell’intricato groviglio di strette vie e tubazioni. Nonostante l’evidente profondità a cui ci trovavamo, una sorta di debole sottofondo luminoso verde sembrava avvolgere ogni cosa.
Il mercenario portò il fucile pneumatico in avanti, pronto a sparare. Si fermò tenendosi in equilibrio aggrappato ai resti di un ponte di marmo. Indugiò un attimo e vi passò sotto. Ripartì veloce.
***
Lo rincorsi. Feci di testa mia; e sopra al ponte fui raggiunto da due arpionate che mi mancarono d’un soffio. Uno degli arpioni riuscì a conficcarsi nel marmo! Ero di nuovo nella terza guerra mondiale.
Procedemmo lentamente, pinneggiando costanti a un metro dal fondale, guardandoci attorno continuamente.
Ai lati, emergevano dalla piana fangosa le facciate di alcuni palazzi, sempre interconnessi con quell’intricato sistema di grossi tubi. In corrispondenza a dei ruderi di una torretta, il mercenario si spostò a destra e si avvicinò ad uno di questi, girò attorno a una specie di protuberanza ed aprì da sotto un portellone ermetico.
Tirai un sospiro di sollievo, percepivo il mio fiato sempre più in affanno, chiaro segnale che a breve avrei esaurito la scorta di miscela.
Prima di infilarvi dentro la testa, il mercenario puntò dentro il fucile e sparò un colpo. Il rinculo fu potente, si ripercosse su tutto il corpo, e mi sembrò persino di percepirne l’onda d’urto.
Recuperò l’arpione tirando a sé la cordina d’acciaio, lo ricaricò, infilò l’arma nell’apertura facendovi sparire dentro tutto il braccio e sparò.
Fece per recuperare di nuovo, ma l’asta non volle saperne di tornare.
Si voltò, e mi fece segno di seguirlo.
Mi avvicinai al portello con prudenza. Infilai dentro la testa, poi feci passare il fucile centodieci e lo appoggiai all’interno della condotta.
Aiutandomi con i gomiti, uscii dall’acqua, col fiatone, affamato di ossigeno mi strappai via l’elmetto.
Guardai la mia guida mercenaria mentre tentava di estrarre l’arpione da un sacco di gomma nera. Mi avvicinai per aiutarlo quando mi accorsi che in realtà era un uomo. Lo osservai in volto. La sua faccia era mummificata, disidratata come una prugna secca. Probabilmente era già morto da mesi.
Il mercenario rinunciò all’arpione, di sicuro conficcatosi in un punto estremamente compatto di quella massa di carne liofilizzata.
Girò attorno l’asta d’acciaio, svitandola dal corpo. Da un marsupio impermeabile levò un tridente e ve lo avvitò sopra.
Ricaricò l’arma, emettendo un urlo distorto dall’elio nell’attimo del massimo sforzo fisico. Fu come udire lo squittio di un ratto gigante.
Procedemmo curvi all’interno del tubo per una decina di minuti finché non ci trovammo in prossimità di una strana imbarcazione slanciata e nera, passai la mano sullo strato di polvere: sotto era lucida come uno specchio, stava messa longitudinalmente e appoggiata su un fianco.
Ci passammo di lato, le accarezzai quella specie di corna metalliche segmentate, argentee e piatte, certamente simbolo di un’antica federazione militare o di qualche dio pagano.
Vidi il commilitone armeggiare con un’altra botola dietro all’imbarcazione, in prossimità della sua pancia nera ancora incrostata di gusci. L’aprì e, con una certa fatica, riuscì a passarvi dentro. Lo seguii. A tratti la condotta era talmente stretta da consentirci di procedere in avanti solo strisciando come vermi. Probabilmente eravamo all’interno di uno di quei tubi neri presenti ovunque.
Finalmente arrivammo alla botola opposta. Ruotò il maniglione e si lasciò cadere in giù con le braccia in avanti.
Io, quasi gli caddi sopra.
Eravamo in una stanza rettangolare di cemento, ben illuminata. L’unica porta presente era quella di un ascensore. Il pavimento era ricoperto di tappeti persiani, alle pareti una ventina di quadri antichi corrotti dall’umidità. Alcuni, similmente a quello strano guerriero trafitto da frecce, erano stati usati come tiro a segno dai mercenari.
La faccia di una vecchia serva mi stava osservando; voleva che mi avvicinassi a lei.
Le ubbidii ammaliato; forse era una strega. Non era disegnata né dipinta. Il suo volto sembrava emergere dal nulla grazie a un alchemico miscuglio di colori.
Ardeva dal desiderio di dirmi qualcosa, di dirlo a tutti, non le era rimasto più tempo. Lo capii; stava scritto sul cartiglio che tratteneva nella mano con cui indicava se stessa come a volersi incolpare per qualcosa. Ripeteva: Col tempo Col tempo.
Meditai su quelle due semplici parole e per un attimo, mentre la fissavo, ne rimasi catturato. Fui portato in un’altra dimensione di pensiero, di libertà, di nuvole e sole, di leggerezza. Un vago ricordo, impalpabile come certi sogni che non si riescono a ricordare, un ricordo di bambini che si rincorrono divertiti tuffandosi tra la schiuma di un mare azzurro, e tanto amore... piacevolezza. Vero che la mente certe volte va oltre, e sopravvive alla carne. Ma poi pensai allo scopo della mia vita, al motivo per cui ero finito nelle profondità abissali: combattere il nemico.
Staccai il quadro e lo osservai da vicino attraverso gli occhi di un’intera umanità per un’ultima volta. Gli sfondai la tela, colpendola ripetutamente col ginocchio.
Levai il guanto di gomma della mano destra e staccai i pezzi rimasti attaccati alla cornice intarsiata. Li gettai a terra accartocciati.
Mi pulii la mano sudaticcia sul muro dove stava appeso, lasciandolo imbrattato di quegli stessi colori essenza della sua esistenza. Ora ne osservavo la genesi: il cerchio era chiuso. Poi rimisi la cornice al suo posto e la guardai per un minuto. “Col Tempo, col tempo,” borbottai quasi compiaciuto della mia creazione.
Mi girai impassibile verso il mercenario arruolatore. Scuoteva il capo perplesso. Non mi aspettavo che comprendesse il significato del mio gesto.
Strattonando il maniglione, si assicurò che la botola da cui eravamo entrati fosse ben chiusa. Nella stanza ce n’erano otto, due per parete. Quando pigiò il tasto dell’ascensore la porta si aprì subito.
Entrammo in quello spazio ristretto foderato di un logoro broccato color bordeaux.
Il meccanismo di movimento era diverso dal precedente ascensore. Questo, anziché pneumatico, era azionato da delle corde. Nel momento in cui mi sembrava di aver compreso se stavamo salendo, oppure scendendo ancor più negli abissi, uno scossone in senso inverso sviliva ogni mia supposizione.
Dopo mezzo minuto iniziai a sentire il fetore emanato dal mio compagno d’armi. Sbirciai: teneva la bocca chiusa, e non si era slacciato la muta di gomma. Probabilmente la puzza usciva da quella specie di crepe rugose che si trovava per faccia.
D’un tratto si girò a osservarmi.
“Metti la sicura al fucile. Appena si aprirà la porta gettalo fuori, assieme ai pugnali, e alza prontamente le mani. Mi hai capito?”
Annuii.
Un sussulto mi sorprese proprio in quel momento, il mercenario sapeva perfettamente a memoria non solo l’intricato percorso che avevamo fatto sia nelle condotte che fuori nelle profondità oceaniche, ma anche i tempi di percorrenza dei vari ascensori.
Fui nuovamente sorpreso quando mi accorsi che una porta si stava aprendo dietro di noi. Mi girai di scatto e feci subito scivolare il fucile sul pavimento, assieme al pugnale. Il mercenario mi imitò. Alzammo le mani.
Ci accolse un mercenario sopra a una sedia a rotelle. Al posto delle gambe, amputate sopra alle ginocchia, aveva due pinne da sub metalliche. Le braccia finivano con tenaglie, fiocine e punteruoli innestati nella carne al posto delle mani.
Osservandolo meglio, mi accorsi che nel destro, probabilmente tra l’ulna e il radio, era innestato un piccolo fucile subacqueo munito di arpione.
Metà faccia era fatta dello stesso metallo lucente delle pinne, al posto della bocca aveva un tubo di gomma nero filettato.
Quello strano essere, più meccanico che umano, incastrò le tenaglie nelle ruote spostandosi di lato. Poi ci fece cenno di entrare.
Abbassammo le mani facendo qualche passo all’interno della stanza.
Sopra una branda, tra bottiglie di grappa, riviste pornografiche e casse intere di fiocine e arpioni, stava seduto un uomo enorme. A differenza di noi, compreso l’essere in carrozzina, non indossava la muta di gomma nera, ma una logora giubba da ufficiale, slacciata sul petto fradicio di sudore.
“Spostati Fedor! Vai all’angolo.”
Il mercenario bionico si spostò, estrasse un punteruolo da quella specie di coltellino svizzero che si trovava per mano e iniziò a scalfire la parete.
“Fedor Dionea è un filosofo,” mi disse quasi compiaciuto l’enorme ufficiale. Tracannò un sorso di grappa. “Grande è il suo sapere, e non ha più matricola, come io del resto. Qui lo chiamiamo semplicemente Fedor il pesantore.”
Bevve.
Fu in quell’istante, mentre stava messo di profilo attaccato al collo della bottiglia che lo riconobbi; avevo di fronte il mio vecchio Comandante.
***
L’ufficiale mi squadrò serio, poi il suo volto si illuminò.
“Giovincello? Non mi riconosci più?”
Mi prese a sé. Stringendomi forte sul petto unto e bagnato. Chiusi gli occhi mentre sentii i suoi peli d’acciaio graffiarmi il volto.
Poi, con una spinta mi fece barcollare facendomi finire contro un sacco nero appeso a una corda, che con mia sorpresa prese a mugolare. Lo osservai meglio: era un uomo avvolto nella gomma della sua stessa muta, appeso a testa in giù come un insaccato.
“Ce l’ho fatta, sono riuscito a cavarmela, ero ancora in Brianza quando esplose la bomba ai neutroni. Non mi ha fatto nulla.”
Compiaciuto tracannò un altro sorso di grappa.
“Eccellenza... è... è un onore potere servirla di nuovo,” balbettai.
Mi riprese a sé strattonandomi: “Bastardo che non sei altro! Sapevo che il mio figlioletto di puttana ce l’avrebbe fatta.”
“Dammi un sigaro!” Ordinò brusco al mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Quando si mosse dalla zona d’ombra dove si era nascosto, realizzai che, incredibilmente, mi ero già dimenticato di lui, e di tutto quello strano percorso negli abissi. Stavo perdendo la cognizione del tempo.
Sbuffando iniziò a tastare con la mano dentro la muta abbassata. Si sentì una lampo aprirsi. Tolse un sigaro, fumato per metà, e lo allungò al Comandante.
Questi annuì, lo portò alla bocca ciucciandoselo tutto, come un cono gelato. Poi tirò fuori un massiccio accendino dorato e lo accese tirando delle pesanti boccate.
Ci guardammo impauriti; avremmo potuto saltare in aria per poi essere compressi dall’oceano sopra di noi. Boom! Un unico boato; tutto finito.
Ma il comandate non sembrava fare una piega.
“Mammolette!” Sputò per terra.
“Vi si vede la paura in faccia!” Sputò di nuovo un fiotto marrone da tabacco.
“Come potremmo mai vincere il nemico?” E scatarrò, sputando un’altra volta.
Poi rigirò il sigaro tra le dita, osservandolo con distaccato interesse.
Mi commossi appena ricordai dove avevo già visto quell’accendino dorato. Era stato prima delle bombe nucleari, sulla costa lombarda del Lago di Garda.
Avevamo espugnato al nemico un centro di comando che stava all’interno di una favolosa villa termale, trasformandola poi, dopo aver ammazzato tutti i militari, in un bordello d’alto rango.
Gli alti ufficiali si erano premiati trattenendo ciascuno un bottino d’oro, il mio Comandante si era accontentato di quell’accendino.
La villa di piacere immersa tra il verde e le vasche d’acqua termale, pareva un miraggio; era miracolosamente rimasta integra tra quel caos di macerie dei borghi limitrofi.
In pochi giorni, quel luogo si era fatto un nome, attirando persino ufficiali dell’esercito nemico, travestiti con le nostre uniformi per potervi accedere, sfidando la morte.
Piscine riscaldate, sigari, ostriche decongelate, prosecco e champagne. Belle donne e transgender ancora più belle.
Poi il paradiso finì d’improvviso, quando la guerra da convenzionale passò ad atomica... e lì non ce ne fu per nessuno.
Quasi mi sorpresi a sorridere ripensando a quel periodo. Osservai di nuovo l’accendino che gli brillava in mano. Bene! I bei tempi non erano del tutto andati.
Il Comandante si piegò di fianco, mise il sigaro in bocca, allungando il braccio prese un fucile dal pavimento armato d’arpione – una nuvola rossa: sangue nebulizzato – con naturalezza aveva sparato al petto del mercenario che mi aveva accompagnato fino a lì.
Il vecio rimase fermo per qualche secondo, apparentemente incredulo, come non avesse capito cosa fosse successo.
L’asta d’acciaio da un metro lo aveva trapassato, strappandogli via il cuore, per poi conficcarsi nel muro di mattoni dietro di lui.
Dopo qualche secondo il suo corpo cadde a terra; sacco di carne inanimato. L’espressione, per quanto riconoscibile, rimase immutata: incredula.
Il Comandante fece cadere il fucile, stancamente, quasi fosse dispiaciuto dell’accaduto.
“Fedor!” Ordinò alla creatura ancora intenta a scalfire la parete. “Controlla se ha altri sigari nelle tasche interne o magari delle riviste porno.”
L’uomo bionico si avvicinò al corpo. Piegandosi di lato dalla carrozzina frugò con le dita fatte a tenaglia tra le pieghe della muta. Poi scosse la testa.
Lo prese per il bavero di gomma con una pinza che si trovava per mano, lo alzò con la sua forza meccanica appendendolo alla carrozzina.
Con due dita a forma di trancino, tagliò la sagola che attraversava il corpo del poveretto, poi staccò l’arpione dal muro. Lo ripulì con uno straccio infilandolo in una sacca appesa alla carrozzina.
Se ne andò trascinandosi via il cadavere, lasciando una scia rossa e densa di organelli che si confondevano nel pavimento alla veneziana.
Il sacco nero appeso alla corda, contro cui avevo sbattuto, riprese a mugolare versi di terrore.
Il Comandante tirò una boccata di fumo, respirandolo a pieni polmoni. La brace si accese all’istante, emanando dei forti bagliori blu. Sì: tra un istante saremmo saltati in aria... “Che hai pivellino? Paura di bruciare come una torcia vivente?”
“Per niente Comandante!” Mi affrettai a ribattere.
“Bene. Bene figlioletto.”
Mi allungò il fucile pneumatico con cui aveva freddato il mercenario.
“La battuta d’arresto del pistone è stata modificata. Se spari fuori dall’acqua non succede nulla, non ti esplode in mano. Sai quante volte l’aria è meno densa dell’acqua marina?”
“Non lo so signore!”
“Quando lo scopri, ci moltiplichi la potenza che ha in acqua. Ti stupirà. Calcola bene la lunghezza del cordino d’acciaio, se spari a vuoto e s’aggroviglia ti strappa via la testa. Sappilo: di oggetti così ne rimangono ancora pochi.”
Espirò quel che rimaneva del fumo di sigaro dopo essere stato filtrato dai suoi polmoni. Presi l’arma. L’afferrai con rispetto, osservandola come una reliquia. Riannodai il cordino bagnato di sangue e pezzetti organici tagliato dal mercenario.
“Provalo dai!”
Lo guardai stupito.
“Spara al sacco nero!”
Rimise il sigaro in bocca, si alzò, fece ruotare il sacco appeso.
“Sai perché ho ucciso quel mercenario? Perché ora nessuno sa come arrivare fin qui.”
“Certo eccellenza!”
“I mercenari di superficie tendono a passare facilmente al nemico. Ricordalo!”
“E il sacco appeso?”
“Secondo te?”
“È il nemico signore!”
Il Comandante annuendo mi allungo un’asta d’acciaio armata di arpioncino.”
“Era uno di noi...”
“Passato al nemico eccellenza?”
Il Comandante mi osservò serio: “Mettiti sull’attenti quando parli con me! Hai capito?”
“Signor sì!” Battei i piedi impettito come avessi avuto i tacchi.
“Peggio! Molto Peggio! Ambiva a diventare colonnello, era uno dei miei fedelissimi. Ma scoprii che non credeva più nell’esistenza del nemico.”
Con una spintarella lo fece dondolare.
“Vuoi diventare tu il mio colonnello?”
Annuii, convintamente.
Rise. “Lo sapevo.” Poi sputò.
“Dai! Carica! Fammi vedere se sei ancora una vecchia baldracca da combattimento!”
Presi il fucile. Appoggiai il manico a terra, lo strinsi tra i piedi. Infilai la lunga asta, poi, facendo leva su delle alette saldate vicino alla sommità, lo armai, spingendola dentro, a più riprese.
“Bastano due scatti moccioso. Dosa la potenza. Siamo fuori dall’acqua. O vuoi ritrovarti pezzi d’acciaio conficcati nella faccia?”
Il Comandante fece di nuovo ruotare il sacco di gomma. Due occhi spaventati e imploranti pietà spuntarono da una piega.
Il mugolio riprese – plop! – sparai.
Udimmo solo il suono del finecorsa bloccare il pistone, come aprire una bottiglia di spumante.
Il Comandante si spostò dietro al sacco nero dondolante. Non emetteva più alcun mugolio.
Svitò l’asta d’acciaio dal piccolo arpione ricoperto di tessuti organici sanguinolenti. Era rimasto infilzato nella parete di legno. Notai che vicino, tra i buchi, ce n’erano una dozzina rimasti incastrati in profondità.
“Fedor!” Urlò il Comandante.
“Sistema tutto. Poi ritorni a scrivere. Noi andiamo!”
L’uomo bionico annuì seccato per poi tornarsene tutto intento a scalfire la parete.
Con la sua manona il Comandante mi strinse affettuosamente il collo, avrebbe potuto tranquillamente spezzarmelo.
“Ora usciamo giovincello, e andiamo a combattere il nemico.”
FINE ANTEPRIMA
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Tempo fa lessi un’intervista in cui una famosa gallerista francese, prossima alla partenza da Venezia per un nuovo incarico, raccontò di essersi resa conto, dopo anni, che la città ha più livelli conoscitivi... multistrato ecco! Aggiungo io.
Adoro pensarlo, modestamente, anche di certi miei scritti che, magari solo lontanamente, tentano di descriverla.
Vengo al dunque. La novella voleva anche, e soprattutto, essere un tributo allo scrittore F. Dürrenmatt, (tutto già spiegato nella sinossi), così ho pensato d’inserire una trasposizione pittorica di un suo pensiero, un “cameo pittorico” oltre che letterale, in uno dei luoghi simbolo del racconto: l’enigmatica stanza di cemento dalle otto botole.
Il quadro nell’immagine: “Labirinto I, il Minotauro umiliato”, “presa in prestito” per voi dal sito ufficiale del museo a lui dedicato: Centre Dürrenmatt Neuchâtel quindi non credo che si possa diffondere, è lo stesso che verrà ritrovato nella Venezia abissale secoli dopo dal nostro protagonista: il Colonnello.
Feci mio il pensiero dell’autore svizzero, dopo avere letto un’intervista. Brevissimamente: il Minotauro fa parte del labirinto, è un mostro in quanto solo, e se ne sta davanti a un mondo a lui incomprensibile.
Vi lascio all’estratto del racconto, sperando di non avervi annoiati e nella speranza di aver regalato quel qualcosina in più; uno "straterello" multi-connesso, tra i tanti, a chi ha già letto il libro.
Da pagina 83
***
Bevvi un sorso d’acqua direttamente dal rubinetto di
fianco alla ricarica, e aprii una scatoletta di carne. Mi
avvicinai a uno dei quadri che stavano appesi su tutte
le pareti, disinteressato, quasi annoiato. Ma la mia
disattenzione fu breve: quanto stonava messo di
fianco agli altri? Era fuori posto, inquietante. Mi girai
verso l’ascensore: sì, atipico come quel logoro
broccato color bordeaux. Pareva dipinto da un
bambino, usando un povero ma curioso accostamento
prevalentemente di due colori, il blu e il nero. Al
centro di un labirinto un brutto Minotauro, ricurvo e
deforme, rattristito. Sopra al muro, quindi fuori dal
labirinto, un ragazzo che lo sbeffeggiava pisciandogli
sulla testa.
Sorrisi, sornione. Ero io quel Minotauro, e cosa
meglio di un labirinto poteva rappresentare il mio
mondo, l’abisso di tubi e cunicoli in cui mi trovavo?
E il ragazzo fuori dal labirinto, chi era? Forse Lia che
se la rideva?
No, troppo semplice, troppo tragicamente romantico.
Non era il sogno di raggiungere Lia che mi stava
sbeffeggiando, era ben altro... era l’idea profonda e
tossica che il nemico in realtà non fosse mai esistito.
***
Labirinto I, il Minotauro umiliato - Centre Dürrenmatt Neuchâtel
Labirinto I, il Minotauro umiliato - Centre Dürrenmatt Neuchâtel
e-book e cartaceo SOLO SU AMAZON e STORE convenzionati
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